Padova 2012Pad

 

Padova 2012

 

 

Metamorfosi

 

Creature di mare e terra-cotta

 

 

Quest'ultima produzione proviene dalla serie “Metamorfosi” nonché da lunghe passeggiate in riva al mare.
Il legno spiaggiato acquista un'aura che attira il mio sguardo e interesse: anch'esso ha vagato nel tempo e nello spazio, a volte porta i segni di precedenti lavorazioni.
Recupero quei pezzi nei quali scorgo la possibilità di proseguire, modellando la creta, il “già fatto”.
Colgo dei tratti antropomorfi o semplicemente dei pretesti per avviare l'ennesima metamorfosi.

Maurizia Manfredi, ottobre 2012

 

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Creature Alate 

 

E' significativo che oggi Maurizia ci consegni il risultato del suo lavoro sulle Metamorfosi di Ovidio, grande opera poetica e simbolica ancor oggi attuale nella lettura dei miti eterni, nella loro interpretazione onirica, nonchè nel loro interagire tra la nostra vita e il nostro subconscio. Sarebbe riduttivo parlare solo di questo recente lavoro poichè esso non è che la parte finale di un lungo percorso professionale e mentale.
Bisognerebbe provare a comprenderne il senso profondo, la dinamica, l'evoluzione, le sue metamorfosi, le interazioni interne ed esterne, nonchè l'interpretazione diacronica.
Come vedremo, un ricco insieme di miti simbolici compongono il patrimonio profondo e inconscio di Maurizia. Questo bagaglio si è arricchito di elementi contemporanei e si è trasformato nel percorso della sua vita. Questi miti costituiscono la sorgente segreta e nascosta dei suoi sogni. Dal mio punto di vista, il suo lavoro artistico, non è che il riflesso tangibile di una immagine soggettiva: quella che lei visualizza dopo un sogno. Questa immagine può essere poetica o inquietante ma non è sufficiente un semplice sguardo estetico: non è possibile celare o fingere di ignorarne l'origine e il processo di formazione. Costituito quest'ultimo da episodi, frammenti più o meno coerenti, articolazioni, associazioni, metamorfosi che hanno formato questa immagine che resta prima che essa nuovamente torni a dissolversi nell'inconscio da cui provengono.
Questa indagine sul percorso elaborativo dell'immagine è da applicare allo studio del lavoro artistico di Maurizia di cui oggi ci mostra la più recente e forte realizzazione i cui passaggi formativi restano nascosti: tocca a noi ricostruirne i rapporti, i legami, le associazioni e dunque il senso profondo.

Per offrire una rappresentazione dei suoi sogni e delle loro interpretazioni ( i loro fondamenti inconsci, le loro rappresentazioni simboliche, il loro processo di formazione e oblio) Maurizia utilizza dei segni e un linguaggio fondati su elementi materiali coerenti e sui loro rapporti: la terra, l'aria, l'acqua, il fuoco e tutte le sostanze associate.
La terra è la sabbia, l'argilla, la creta che lei utilizza nel lavorare ma anche i cocci di ceramica, i frammenti di vetro, i ciottoli e le conchiglie raccolti nelle spiagge e conservati nella sua Wunderkammer.
L'acqua è il mare, la sorgente, la fontana, il fiume e l'origine del mondo vivente. Disseta gli Dei, gli uomini e gli animali, nutre fiori e piante.
Il fuoco e il sole purificano, riscaldano e anche portano alla cottura cibo e creta.
L'aria che respiriamo, è anche il cielo, il regno delle fate, degli angeli e di tutte le creature alate.
Maurizia usa le sostanze primarie e quelle derivate (colori, carboncini, matite, carte, tessuti, fili, resine, colle e intonaci) e nel trasformarle conduce il proprio lavoro assemblando frammenti, seguendo criteri coerenti di associazione nel tentativo di portare alla luce e di fissare le proprie immagini oniriche.

Tra i grandi miti che danno origine ai sogni e all'opera di Maurizia se ne evidenziano quattro: la Dea Madre, idolo preistorico che ispira terrore e rispetto, la Donna, in un rapporto di seduzione o di sottomissione agli uomini, la Casa, quale rifugio, nascondiglio e luogo di vita, la Natura, rigeneratrice e misteriosa, ritiro sconosciuto e consolatorio nelle nostre fughe. La Dea Madre, fonte di fertilità ha più volte suggerito percorsi artistici a Maurizia. A fondamento del matriarcato, la Dea protegge il potere delle donne che, attraverso l'incontestabile matrilinearità, garantiscono continuità al potere. E' da lei che deriva la forza di Medea, Cassandra. Lei protegge Cornacchia, Madusa o Aretusa contro l'aggressione degli Dei e degli uomini. La Donna è spesso considerata una strega inquitante, in lei c'è la colpa della sua bellezza che provoca il desiderio degli uomini. Per reazione può resistere, subire o sottomettersi alla violenza, fuggire o trasformarsi. Lì dove il potere maschile è più duro e consolidato, la Donna vive in subordine, velata, relegata nel privato, spesso anche nell'ignoranza, per neutralizzare i suoi poteri seduttivi, per proteggere la purezza della linea patriarcale.
Tutto, nell'opera di Maurizia, esprime la ricerca della resistenza, della fuga e della metamorfosi piuttosto che quella della sottomissione.
La Natura, nella quale ci si rifugia e si trova la forza sotto il segno degli elementi: la Terra e le sue creature, i suoi fiori i suoi giardini, i suoi animali, l'Acqua che ci accoglie e ci fortifica, l'Aria o il vento che ci porta nuvole e Creature Alate, il Fuoco, il sole, i vulcani che ci riscaldano, ci illuminano e ci inquietano. In tutta l'opera di Maurizia sono ricorrenti queste tematiche della Natura misteriosa ed accogliente, luogo di isolamento e di meditazione.
La Casa è spesso rappresentata come un cubo che protegge, munito di finestre dalle quali si osserva l'universo, con qualche animale domestico: gatti, polli, asini la cui familiarità rassicura.

Nella serie delle Antologiche Maurizia ha ricomposto, nella staticità della composizione tutte queste tematiche, quasi frammenti associati, come se volesse rimettere assieme tutti gli elementi magici dei suoi sogni. Nelle Metamorfosi, per arricchire la sua rappresentazione onirica, Maurizia rappresenta anche i rapporti dinamici, i cambiamenti, le fughe e i movimenti. Riunisce tutti gli elementi costitutivi del nostro inconscio collettivo e della sua storia individuale che alimentano i suoi sogni. I frammenti si assemblano, si sovrappongono come falde sedimentarie o strati di pittura, si mettono in movimento, scompaiono per riapparire mutati come metamorfosi nelle opere di oggi.

Jean-Marie Bouroche 2012

 

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STORIA DI UN LAVORO E LE SUE METAMORFOSI


Preambolo


Chi non si lascia emozionare alla vista di un prodotto umano proveniente dal passato? Chi non si interroga sulla sua provenienza, su come è stato costruito, su chi l'ha eseguito e per quale motivo e in quale contesto?
L'archeologia, anche quella più spicciola e domestica, ha da sempre segnato la mia vita. E, per dirla tutta, raccolgo anche conchiglie, sassi che, accostati ai cocci romani, medievali e ai libri e mattonelle raku, alle terrecotte e alle pitture di mia fabbricazione, danno vita alla piccola Wunder-Kammer che spesso passo in rassegna per assaporare quel nucleo di senso, quell'aura, che pervade l'oggetto, attivata dalla percezione, dai ricordi, dal tempo e dal contesto, dallo spazio. Come se una forza irresistibile unisse momenti diversi della mia piccola storia alla Storia più ampia, che precede la mia nascita e abbraccia la Natura.
Dipingere, modellare la creta, nel mio caso, si inscrive nella stessa passione di cercare, trovare, scavare un senso. Al mio sguardo indagatore che percorre musei, visita siti archeologici ma si incanta anche nell'osservare la superficie di un muro, di un sasso o i volti della gente, un paesaggio, aggiungo le mani per ricostruire, modellare questa empatia, questo mio stare nel mondo, trasformando la materia, a mio modo.

La lettura delle “Metamorfosi” di Ovidio

Questo mio viaggiare nelle fessure del passato non ha potuto esimermi dalla lettura dei miti, la cui tracciabilità nel tempo e nello spazio non ha mai finito di stupirmi.
Come molti da sempre sogno il volo, non solo quello liberante, temerario tra fronde di alberi, tetti e guglie. C'è anche quello pesante, più difficile, che a seguito di un salto bisogna sostenere faticosamente, centimetro dopo centimetro, per recuperare in altezza, per librarsi nell'aria.

Le braccia dovrebbero trasformarsi in ali.

Così sono nate le mie prime creature alate in terracotta: ali spiegate ma ancora postura verticale e ben salda a terra. (Fig. 1,2,3)


Ovidio, con le sue “Metamorfosi”, ha spalancato una porta. Affinché la lettura fosse più agevole e appassionante ho scelto con cura la traduzione.
In tempi come questi, in cui le speranze nelle “magnifiche sorti e progressive”della Modernità si infrangono tra gli scogli del degrado della Natura per opera dell'Uomo, questo libro sembra scritto oggi.
Il mondo di Ovidio è integrato: dei, uomini, animali, vegetali, cose inanimate navigano ininterrottamente trasformandosi uno nell'altro così che nessun elemento è subalterno agli altri.
La metamorfosi è il meccanismo che nel trasformare tiene insieme. Si può parlare di “riciclaggio”, infatti nulla si disperde, tutto è imparentato con tutto.
E' interessante il sentimento laico che pervade il libro, e appare chiaro che per Ovidio è l'uomo a creare la divinità e tutte le conseguenze del caso. La responsabilità di ogni singola vita acquista valore aggiunto in un mondo dove dio è un'opzione. La metamorfosi che è un evento drammatico, allo stesso tempo stempera la durezza dello scetticismo nella circolarità, nel fluire continuo. E così come gli dei hanno tanto di umano, anche la natura si umanizza attraverso la metamorfosi. Insomma l'essere umano è in tutto, non perché ha un potere supremo, piuttosto per una vitalità, una adattabilità fisica e psichica che lo fanno restare nel mondo nonostante tutto, anche nonostante sé.

Si è parlato del rapporto uomo-natura, uomo-dio, ma cosa dire tra uomo-uomo, uomo-donna? Purtroppo quando mi affaccio al mondo greco-romano e ai miti, per quanto entusiasmo possa metterci, non riesco a dimenticare che la tanto decantata democrazia rappresentata dalla polis, si ergeva sugli schiavi e che il sistema patriarcale relegava la maggior parte delle donne in ruoli di sudditanza rispetto agli uomini.
Ma quello che aumenta il mio disagio è che questi temi sono attuali ancora oggi e non solo in regioni altre.
Ben vengano allora i miti proprio grazie alla loro problematicità.

Primo passo: il libro d'artista

Ho recuperato, riciclato, il catalogo di una vendita all'asta di oggetti, dipinti e mobili antichi, tenuta a Parigi nel 1937. Vi ho dipinto quattordici scene di Ovidio con relativi stralci di testo.
Questo lavoro è stato molto utile ma ben presto mi sono accorta che non era quello che andavo cercando.

La metamorfosi della Cornacchia è stata la prima ed è quella a cui sono più affezionata. (Fig. 4).

 

Ovidio racconta la storia dalla testimonianza diretta della stessa protagonista:
“...l'illustre Coroneo mi generò nella terra di Focide (racconto cose che tutti sanno), ed io ero una principessa e ricchi pretendenti (non ridere di me) mi chiedevano. La bellezza fu la mia disgrazia. Infatti mentre a lenti passi camminavo lungo la spiaggia sabbiosa, come faccio ancora, il dio del mare mi vide e si riscaldò, e dopo che ebbe sprecato il suo tempo a pregarmi con dolci parole, decise di prendermi con la forza e mi inseguì. Io fuggo, lascio la riva compatta e mi trovo ad arrancare invano sulla rena dove si affonda. Allora invoco gli dei e gli uomini. La mia voce non raggiunse nessun mortale, ma per la mia verginità si commosse la vergine Minerva, e mi portò aiuto. Io tendevo le braccia al cielo: le braccia cominciarono a nereggiare di leggere penne. Volevo gettar via la veste dalle spalle: ma la veste era un manto di piume che aveva messo radici profonde nella pelle. Cercavo di battermi con le mani il petto denudato: ma ormai non avevo più mani, non avevo più un petto nudo. Correvo, e i piedi non affondavano più nella rena come prima, ma mi libravo raso terra. Poi volo via, in alto nel cielo...”
Direi che è paradigmatica. Di storie come questa ce ne sono tante, molte finiscono peggio, in alcune l'aggressore, se non fa parte della casta degli dei, fa una brutta fine; in questo caso la trasformazione è salvifica. E' interessante già dalle prime parole: “Coroneo mi generò”, è evidente la patrilinearità; “La bellezza fu la mia disgrazia”, penso che ancora oggi ci sia chi difende lo stupratore colpevolizzando la vittima perché “troppo bella”, provocatrice di presunti “naturali istinti maschili”, magari anche “frivola” o peggio.
Cosa dire, ad esempio ulteriore, del mito di Medusa? (Fig. 5).

Anche lei “disgraziatamente era bella”.
Così scrive Ovidio: “Medusa era una bellezza meravigliosa, e fu desiderata e contesa da molti pretendenti, e in tutta la sua persona nulla era più splendido dei suoi capelli. Ho conosciuto un tale che sosteneva di averla vista. Si dice che il signore del mare la violò in un tempio di Minerva: la figlia di Giove si voltò indietro e si coprì i casti occhi con l'ègida, ma perché il fatto non restasse impunito, trasformò i capelli della Gorgone in schifosi serpenti. Ancora oggi Minerva, per sbigottire e atterrire i nemici, porta davanti, sul petto, i serpenti da lei stessa creati.”
La bellezza femminile, se così stanno le cose, non è controllabile e provoca eccessi tali nel maschio da ritenerla responsabile della stessa violenza da lui perpetrata. Tocca a una donna, una dea, punire la giovane violata trasformandola in ciò che nell'immaginario maschile è la rappresentazione simbolica della bellezza femminile mortifera: un mostro infido, una strega che ancora attira lo sguardo ed è destinata a seminare morte. Ma non è abbastanza: il processo alla donna colpevole di essere stata violata si conclude con la pena capitale.
Srive ancora Ovidio: “E Perseo discendente di Agènore narra come sotto il gelido Atlante si appiatti un luogo protetto da un saldo bastione...e come attraverso rocce sperdute e impervie, attraverso orride forre, giunse alla casa della Gorgone, e qua e là per i campi e per le strade vedeva figure di uomini e di animali tramutati da esseri veri in statue per aver visto Medusa; lui comunque guardò la forma dell'orrenda Medusa, riflessa nello scudo di bronzo che portava al braccio sinistro; mentre un sonno pesante gravava sui serpenti e su lei stessa, le spiccò il capo dal collo...”
Il regime patriarcale deve controllare la donna. I capelli, soprattutto, rappresentano la sessualità; essi, se lasciati liberi con il viso e il corpo del quale fanno tutt'una, provocherebbero maschi di altri clan, così che dei figli che possono nascere da stupri o unioni consenzienti non si può che essere sicuri delle madri. Questo slittamento dalla sicurezza del padre alla sola sicurezza della madre mette in crisi il sistema del potere maschile. Da un ordinamento patriarcale basato sulla proprietà delle donne, dei figli, della casa, della terra, della ricchezza, che si perpetua con l'appartenenza al clan, si può inesorabilmente scivolare nell'anarchia e nel potere della donna. Per questo tante donne, anche chiamate “streghe”, sono state uccise, per questo lo stupro è un'efficace arma da guerra infatti non solo umilia e spaventa, soprattutto scardina il potere del clan avverso, crea donne disonorate i cui figli hanno sangue dell'odiato nemico che mina dall'interno. Per questo la donna porta il velo, per questo le donne stuprate, ancora percepiscono su di sé la “colpa” di Medusa. Per questo mi piace ricordare il “mitico” periodo preistorico matriarcale, del quale c'è comunque traccia, in cui i figli erano patrimonio comune così come i beni e forse, allora, si viveva in pace.

Le prime terrecotte: Cornacchia e Aretusa

L'intento era quello di cogliere la fanciulla nell'atto della metamorfosi in cornacchia. (Fig. 6,7,8).

C'è da dire che Ovidio, da esperto osservatore degli essere umani e della natura, offre il massimo di sé ad ogni trasfigurazione. Dato un blocco di creta, dell'acqua, un'asta per sostenere la materia nel trasformarla, due mani mediamente esperte...il libro aperto a mò di ricettario, il gioco è fatto. Poi si mette in forno a una certa temperatura e per un certo tempo.
La descrizione ovidiana è quasi scientifica oltre che filmica: egli plasma il racconto come creta per fasi successive e aggiunge ragioni morfologiche, etimologiche e semantiche per avvalorare la veridicità della metamorfosi. Come a dire che la cosa è certa, non è frutto della fantasia letteraria. In realtà l'opera tutta si riferisce alla dimensione letteraria alludendo a modelli e facendoli rivivere. Da una parte quindi c'è l'osservazione, l'occhio indagatore sulle forme dell'essere e dall'altra il patrimonio letterario che l'ha preceduto.
Presa da questo rapporto tra tradizione e immanenza, mi viene da pensare che la metamorfosi possa essere intesa come metafora del “fare in arte”. Questa trasfigurazione su doppio binario, passato e presente, può riconsegnare la realtà arricchita di senso? Come Picasso, probabilmente anche Ovidio “trovava”, non si accontentava di “cercare”. L'archeologia intesa come sguardo predatore nel passato e l'indagine sulla realtà possono essere la base della poetica delle metamorfosi.
Ritornando alla Cornacchia: quel “...e volo via.” ancora mi emoziona. Doveva librarsi nell'aria: ho realizzato una colata in resina epossidica trasparente che sostiene e innalza la creatura alata. Stesso procedimento per Aretusa, ninfa dell'omonima fonte in Sicilia, che vive in osmosi con l'acqua. ( Fig. 9,10,11 ).

In questo caso la terracotta è quasi immersa nella resina-acqua nell'atto di raccontare la sua storia che tratta di un tentativo di stupro, di una rocambolesca fuga e di una nuova vita in una nuova terra. “Rifugiata trova asilo” si potrebbe titolare.
Così Ovidio introduce il personaggio Aretusa, inserendolo nelle peregrinazioni di Cerere alla ricerca della figlia Proserpina rapita da Plutone dio degli inferi; quella giovinetta, il cui unico cruccio è per i fiori che aveva raccolto e che cadono dalla veste quando viene strappata con la forza dai suoi giochi per opera di questo vecchio prepotente:
“Aretusa trasse fuori il capo dalle sue acque giunte dall'Elide, si scostò dalla fronte verso gli orecchi le chiome stillanti, e disse: “O genitrice della vergine cercata per tutto il mondo, o genitrice delle messi ....io non sono di qui; la mia patria è Pisa, nell'Elide ( Peloponneso ) e di laggiù provengo. Straniera sono, in Sicilia; ma questa regione mi è più cara di ogni altra: qui io Aretusa ho ora la mia casa, questo è il mio paese: e tu salvalo mitissima dea. Perché io mi sia trasferita, perché, superando una così grande distesa di mare, io mi spinga fin qui a Ortigia, lo narrerò in un momento più opportuno.”
Riprende e termina la storia della madre alla ricerca della figlia, secondo lo schema tipico del racconto nel racconto, e ritorna Aretusa: “Tacciono le acque, e dai loro gorghi profondi Aretusa trae fuori il capo, e strizzatisi con la mano i verdi capelli racconta dell'antico amore del fiume Alfeo: “Io ero una delle ninfe che stanno in Acaia, -dice, -e nessun'altra con più passione di me percorreva le forre, nessun'altra ….,sebbene fossi rude, avevo fama di essere bella. Malgrado tante lodi, il mio aspetto non m'inorgogliva, e mentre le altre di solito ne godono, io, semplice e scontrosa, arrossivo delle mie doti fisiche, e, se piacevo mi pareva una colpa. Stanca tornavo, ricordo, dalla foresta di Stinfalo. C'era afa, e il peso dell'afa era raddoppiato dalla fatica. Capitai ad un fiume senza un vortice, che se ne andava senza un mormorio, trasparente fino al fondo, tanto che attraverso l'acqua si poteva contare ogni sassolino, tanto che a stento avrei creduto che scorresse. Pallidi salici e pioppi nutriti dall'acqua davano alle rive in declivio un naturale riparo di ombre. Mi accostai, e dapprima mi bagnai la pianta del piede, poi la caviglia, e non contenta di questo mi spogliai e appesi i molli veli a un ramo pendente di salice, e m'immersi nell'acqua, nuda. Mentre battevo e traevo a me l'acqua guizzante in mille modi, levando e rituffando le braccia, sentii venire da sotto i gorghi uno strano bisbiglio, e atterrita risalii sul bordo della riva più vicina. -Dove vai così in fretta, Aretusa? ... mi aveva detto, con voce roca, l'Alfeo dalle sue acque. Fuggii così com'ero, senza vestiti: le vesti erano rimaste sull'altra sponda. Tanto di più lui mi incalzava e s'infiammava, e poiché ero nuda, gli sembravo più pronta. Così io correvo, così lui mi inseguiva spietato, come le colombe fuggono con ali trepidanti davanti allo sparviero, e come lo sparviero si avventa contro le trepidanti colombe.... e lui non mi raggiungeva. Ma correre più a lungo, io, meno resistente, non potevo, e lui reggeva a una lunga fatica. E tuttavia corsi per campi, per monti coperti da alberi, e anche per rocce e rupi, per dove una via non c'era. Avevo il sole alle spalle: davanti ai piedi, vidi un'ombra allungarsi e precedermi, a meno che non fosse la mia paura a vederla,ma è certo che il rumore dei passi mi atterriva e sulla benda che mi teneva i capelli arrivava il soffio potente del suo respiro affannoso. Sfinita dalla fatica: - Aiuto, mi prende! - dico -Aiuta, Diana ...- La dea si commosse, e staccata una nube da uno spesso banco di nubi, la gettò su di me. La foschia mi nasconde e Alfeo scruta di qua e di là e non riesce a capacitarsi e mi cerca intorno alla nuvola cava, e due volte gira ignaro intorno al punto dove la dea mi ha nascosto, e due volte chiama –Aretusa! Aretusa! - In che stato d'animo ero io, poverina? Non forse in quello di un'agnella se per caso sente dei lupi ringhiare nell'alto ovile, o di una lepre che appiattata in un cespuglio vede i musi ostili dei cani e non osa fare il minimo movimento? E tuttavia lui non se ne va, e infatti più in là non vede nessuna orma di piedi: sorveglia la nuvola e il posto. Un sudore freddo, trovandomi così assediata, mi pervade le membra, da tutto il corpo mi cadono gocce azzurrine, e se sposto un po' il piede, si forma una pozza, dai capelli cola una rugiada, e in meno di quanto impieghi ora a raccontarlo, mi muto in acqua. Ma allora il fiume riconosce nell'acqua l'amata, e lasciato l'aspetto umano che aveva preso, torna a essere quello che è, una corrente, per mescolarsi a me. La dea di Delo fece uno squarcio nel terreno, e io sprofondando in buie caverne arrivo fino a Ortigia, che mi è cara perché deve il suo nome alla mia dea, e qui per la prima volta rispunto fuori all'aria, da sottoterra.”

Nelle presentazioni che ho letto, si parla spesso del distacco, scettico a volte, di Ovidio. Del suo essere rivolto ai testi, alla codificazione che lo precedeva piuttosto che alla realtà. Come se il risultato del suo lavoro dipendesse soprattutto dall'abilità del suo gioco letterario.
Sicuramente guardava con scetticismo al mondo divino e alla mentalità comune, quella stereotipata, densa di pregiudizi che può arrivare a esiti disastrosi.
Ho voluto inserire i precedenti frammenti di testo anche per riflettere sull'empatia dello scrittore nei confronti dei personaggi, soprattutto dei più deboli, dei vinti e della natura tutta, di cui racconta la storia, già scritta, d'accordo, da altri e “dal destino”. Ora però, qui, si legge come la racconta l'autore Ovidio e sembra quasi che sia una storia diversa.
Anzi lo è. Ad esempio, nel raccontare Medusa, Ovidio rende molto palesi le ragioni della giovane. Non parla di unione consenziente con Nettuno, come ho visto in altre fonti. Fa dello stesso Perseo un testimone a favore. Sceglie la strada della donna vittima della misoginia e pertanto emblematica nella sua sventura. Potrei elencare a lungo esempi di empatia, di pietas, di prese di responsabilità da parte dell'autore e non solo nei confronti della donna.
Mi pare che nel parlare dei miti, proprio attraverso la metamorfosi, trasfigurando tutto e tutti, stravolgendo la realtà, Ovidio la riconsegni più densa e bollente allo stomaco del lettore.

Figure alate e migranti

Nello “scavo archeologico” ho trovato, alla fine, la chiusura momentanea di un cerchio.
In primis mi si è chiarito il fatto che ciò che veramente mi interessava era il meccanismo della metamorfosi e in special modo della trasformazione delle braccia in ali allo scopo del volo.

Sono tornata alla pittura, ho scelto pezze di eco-pelle nera della dimensione 80x60. Avevo già assaggiato, anni addietro, la duttilità della base e la resa pittorica della pelle umana dipinta sulla pelle, in occasione di alcune sedute di nudo. Ho ristudiato il tutto alla luce dei materiali, delle conoscenze e delle esigenze tecniche maturate nel contempo. Ho messo le ali anche a persone a me vicine, oltre che a me stessa. Una creatura a mezzo busto per ogni pezza. Tutte leggibili orizzontalmente e da disporre in sequenza. (Fig. 12, 13, 14).

Non dovevano, dunque, differenziare molto nell'esecuzione, se non in ciò che le contraddistingueva nell'età, nelle caratteristiche date dalla differenza di colore di pelle e dai tratti somatici.
Alla diciassettesima mi sono fermata. Il numero era già sufficiente per creare uno spazio percorribile al cui interno avrei potuto “far volare uno stormo di uccelli”.
Subito ho iniziato con la terra da modellare. Le creature alate dovevano essere tante e quasi ammassate in alto, appese a fili trasparenti. Dovevano necessariamente variare tra i venti e cinquanta centimetri di lunghezza. Avrebbero seguito lo stesso feeling delle pitture ad eccezione del colore degli incarnati; proprio grazie alla caratteristica primigenia della terra, meglio sarebbe stato lasciare che le creature mantenessero lo stesso colore, avrei lasciato al caso le variazioni del cotto dovute dalle crete usate e dalle cotture che non sono sempre uguali.

In vita mia ho tanto dipinto, prima ho a lungo lavorato nell'ambito delle incisioni calcografiche ma, alla modellatura sono approdata tardi. Eppure, per quanto mi riguarda e per quanto riguarda ciò che provo nel farlo, debbo ammettere che non c'è piacere più grande. Tenere tra le mani questa duttile e piacevole materia che all'inizio è un blocco, imparare a conoscerla in densità, secchezza e tenuta e lavolarla sino a farle prendere forme diverse, è un'esperienza così legata alla creazione da non aver pari. Nel lavorare con la creta, stupisco ancora me stessa nell'entrare in sintonia con la materia a scoprire tutte le probabili variazioni, a cercare una logica nella tridimensione legata all'insieme del lavoro e alle possibilità e ai limiti, a volte da rispettare, a volte da vincere, della materia stessa. Questo entusiasmo è forse e semplicemente l'effetto della tridimensione. Le mie terrecotte devono essere immediate, ancora nello stato del divenire; questi elementi e altri che non saprei, fanno sì che io mi lasci andare lì, dove si entra nello sconosciuto della materia da trasformare. (Fig. 15, 16, 17).

 

Da come ne scrivo sembra una magia vicina ad Orfeo, in parte è così anche se non sono una sostenitrice della concezione che “tutto è dentro di noi” grazie a innatismi legati al “voler fare”.
Ma non è solo la metamorfosi della materia che mi interessa: è il cambiamento nello stesso procedere dalla prima esperienza alle successive, da un pezzo all'altro nell'accumulo degli stessi. E questo è il monitoraggio della mia personale esperienza nel “fare artistico”, che non è necessariamente un progresso lineare, piuttosto a spirale, con inversioni, cadute, ritorni.
Ho dato a tutto l'insieme, pitture e terrecotte, un nome: “migranti”. Dovrebbe essere la chiusura momentanea di un ciclo.
Come sono arrivata a questo punto, l'ho già raccontato, quanto tutto questo abbia attinenza con il presente, nonostante me, spero sia altrettanto chiaro.
Chissà se Ovidio dalla terra di Tomi, dov'è morto, nel suo desolato esilio, a seguito del solito “editto bulgaro”, mi fa un cenno di saluto per dirmi di non preoccuparmi, ché intanto il libro suo si legge ancora, come aveva previsto, ed è un buon segno. Perché, anche se a qualcuno, ogni tanto, viene in mente di rompere con il passato, c'è qualcun altro che ancora costruisce ponti nella Storia per meglio comprendere il presente e progettare il futuro; cosa non facile in questi tempi bui.

Maurizia Manfredi 2011